sabato 21 febbraio 2015

Due parole su Whiplash

Questo breve scritto non vuole essere una recensione di Whiplash, gran film di Damien Chazelle: una sola visione proprio non basta. Vorrei comunque scrivere due righe su un argomento che in un certo senso mi sta a cuore.
Verso la fine del film mi ha colpito in particolare una scena: il protagonista si trova a riguardare un filmato della sua infanzia in cui un se stesso bambino suona entusiasta la batteria, e si commuove. A quel punto, ha già abbandonato la sua passione, diventata negli ultimi tempi un'ossessione insana grazie ai metodi severissimi dell'insegnante Terence Fletcher. Non ho potuto fare a meno di pensare che in quel preciso momento avvenga per lui una presa di coscienza: se perdi l'amore per quello che stai facendo, se smetti di divertirti anche se quello che ami ti fa dannare, resti un nevrotico guscio vuoto senza nulla da dire. L'idea che in qualunque disciplina si possa raggiungere un'utopica perfezione tramite la durezza dell'insegnamento è, per quanto mi riguarda, una follia. Non si addestra un cavallo in modo efficace frustandolo; non si insegna ad un cane l'obbedienza con la violenza. A maggior ragione non si può pensare di trovare il prossimo Charlie Parker umiliando psicologicamente un ragazzino di diciannove anni e portandolo a smarrire la spinta vitale che lo guidava. Beninteso, non credo che il film promulghi questo metodo (anzi, ritengo che sia esattamente l'opposto): penso soltanto che molte persone non comprendano davvero cosa vuole dire essere sottoposti ad una pressione psicologica di quel tipo ad un'età così giovane, in cui è davvero difficile vedere le cose in prospettiva. Un professore in quel particolare momento dell'esistenza dovrebbe essere una persona stimata, fidata, ovviamente severa se necessario: qualcuno dal quale si sia profondamente incentivati ad imparare il più possibile, che sappia trasmettere l'amore per la disciplina alla quale ha dedicato la sua carriera lavorativa. Nella vita di un ragazzo i primi e più importanti esempi di adulti, a parte i genitori, sono proprio i professori. Con la severità eccessiva e la violenza psicologica, temo, si generano soltanto mostri eccezionali e pieni di rancore. È lecito spezzare le gambe alla passione (e alla felicità) di decine di ragazzi inseguendo un sogno, per quanto nobile possa essere? Siamo del tutto sicuri che questo sia l'unico modo di ottenere risultati eccezionali, che la comprensione e l'empatia siano debolezze da estirpare e reprimere? Un ragazzo fragile può essere spinto a dare il meglio di sé soltanto se ferito e spezzato nell'animo? Potremmo voler sostenere che un comportamento del genere da parte di un insegnante sia tollerabile nel momento in cui ottenga ottimi risultati: in altri ambiti - lavorativi o sociali - costruiti su rapporti paritari tra adulti, questo stesso modus operandi sarebbe ugualmente scusabile? Non ho esperienza educativa, quindi non sono certamente la persona più adeguata per rispondere. Voglio credere comunque, nella mia ingenuità, che un rapporto di fiducia tra studente ed insegnante sia possibile e preferibile, che un ragazzo debole possa essere aiutato e sospinto con consigli e incitazioni e non a suon di schiaffi ritmati ed insulti, e che uno studente sia perfettamente in grado di rispettare un professore anche senza tremare alla sua vista. Non c'è ambizione, per quanto grandiosa, che giustifichi la distruzione di una personalità. Il piatto che quasi decapitò Charlie Parker fu lanciato soltanto una volta, non ogni giorno del mese: ed ho come l'impressione che se avesse smesso di amare visceralmente il suonare, se quello stesso sentimento si fosse trasformato in un incubo, anche lui non avrebbe più suonato nemmeno una nota.  

martedì 17 febbraio 2015

Levin e Polanski, ovvero di chi è il bambino di Rosemary

L'opinione comune generalmente sostiene che «il libro è sempre meglio del film» ma, personalmente, trovo che sia un punto di vista un po' troppo rigido. Un'opera d'ingegno (non necessariamente d'arte) vive nel momento in cui viene rielaborata, analizzata, reinterpretata; altrimenti, come tutte le cose che rifiutano di evolvere, muore. La prima forma che essa assume è sempre ed indiscutibilmente la migliore? Prendiamo ad esempio Rosemary's Baby, romanzo di Ira Levin pubblicato nel 1966 e poi trasposto in lungometraggio sotto la direzione di Roman Polanski, appena giunto in territorio americano, nel 1968.
Secondo la mia modesta opinione, il romanzo ha il grande pregio di avere un'ottima idea di fondo (debitrice sicuramente dello zeitgeist) che tuttavia finisce per essere castrata dal fatto stesso di essere espressa in una forma letteraria. Tralasciando del tutto l'aspetto stilistico, impossibile da analizzare in una traduzione che (almeno per quanto riguarda l'edizione in mio possesso) sospetto non essere delle migliori, l'atmosfera di suspense del romanzo è soffocata dai pensieri riportati di Rosemary e dalla struttura analitica della prosa, che non lascia spazio all'indeterminatezza in cui i brividi prosperano. Le parole - perlomeno nell'utilizzo che ne fa Ira Levin - tendono a circoscrivere, a concludere, e così facendo illuminano spazi che piuttosto trarrebbero maggior vantaggio dal restare in ombra. Ciò non vuol dire che la storia non sia avvincente o che il romanzo sia una lettura noiosa (dopotutto, è anche molto breve), ma semplicemente che all'occhio del lettore che abbia visto precedentemente il film del cineasta polacco è chiaramente evidente come la vicenda di Rosemary e del suo neonato non sia pienamente valorizzata dalla forma romanzo. Polanski (sceneggiatore oltre che regista) non modifica né reinterpreta l'intreccio ma piuttosto con il suo stile essenziale, analitico e crudele corregge i difetti letterari con pregi del tutto cinematografici. L'ingombrante voce interiore di Rosemary è quasi del tutto eliminata, contribuendo a dotare la vicenda di una ambiguità che amplifica il senso claustrofobico di disagio e paranoia che, fino alla fine, resta sospeso nell'aria, ai margini dell'immagine: ciò è particolarmente riscontrabile nella sequenza dello stupro, memorabile ed inquietante, durante la quale lo spettatore vede con gli occhi e con i sensi della protagonista - ma non in soggettiva, mantenendo una certa distanza - piuttosto che leggere una descrizione della sua esperienza, trattenendo in misura molto maggiore il senso di spaesamento, o ancora nella magistrale scena finale che lavora per sottrazione a partire dalle pagine del romanzo, mostrando il minimo possibile (il neonato non entra mai direttamente in campo) e lasciando che il terrore si formi e si coaguli nella mente, piuttosto che nella retina, dello spettatore. Tutto ciò è reso possibile in larga misura dalla natura visiva del medium cinematografico, che può, spesso e volentieri, fare a meno delle parole. Anche accadimenti minimi del libro, come lo spuntino a base di cuore di pollo, assumono un'importanza molto maggiore ed esprimono in modo sensibilmente più forte la loro carica disturbante, aiutati da una fotografia e da una regia fredda e mai troppo calcata - anzi, estremamente calcolata. È indubbio che, se Rosemary's Baby è assurto a caposaldo di quel fecondo sottogenere dell'horror che preferisce suggerire invece di mostrare, gran parte del merito sia da attribuire all'occhio e alla mente di Roman Polanski.   

venerdì 13 febbraio 2015

PRESENTE, ovvero: American Horror Story, svariate migliaia di anni dopo

Una necessaria premessa: non possiedo i diritti di American Horror Story ed ho scritto questa storia soltanto per esercizio e per diletto.

PRESENTE 

Violet osservava corrucciata il cielo innaturalmente pallido: era sicura che quel bianco accecante le avrebbe fatto lacrimare gli occhi se i suoi dotti lacrimali non fossero stati soltanto l'ombra di quelli che un tempo possedeva. Dalle finestre frantumate non passava nemmeno un filo d'aria; tutto era immobile, come in attesa. La temperatura, per quel che poteva dedurne una pallida immagine di essere umano come lei, sembrava leggermente più alta della media. Desiderò allora più che in ogni altro momento che il suo computer non avesse smesso di funzionare: avrebbe potuto cercare di capire qualcosa su quell'atmosfera così strana. Ormai tutto all'interno della casa, compresi i suoi abitanti, era distrutto e abbandonato.