martedì 4 aprile 2017

Moonlight, la recensione


Scritto e diretto dal trentottenne Barry Jenkins, Moonlight racconta l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di Chiron, nato in un brutto quartiere di Miami, figlio di Paula (Naomie Harris), dipendente dal crack. Alex R. Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes si passano con fluida abilità il ruolo del protagonista lungo i tre segmenti di cui si compone il lungometraggio, ognuno dotato di un proprio titolo. Nonostante l’ambientazione sia realistica e sporca, il tono utilizzato è quello un po’ rarefatto della fiaba, ed è del tutto possibile descrivere Moonlight come una tenera storia d’amore in tre atti. 



Le panoramiche vertiginose con cui Jenkins riprende i compagni di gioco e di scuola di Chiron mettono in scena con chiarezza quanto sia difficile per lui affermare la propria diversità dagli altri, che lo ingabbiano con i loro sguardi severi, incapaci di comprenderlo. Chiron è del tutto chiuso in sé stesso, sempre sulla difensiva: guarda il mondo dal basso in alto. L’unica persona che riesce a sbrecciare il suo muro è lo spacciatore di quartiere Juan (Mahershala Ali), dotato di un grande cuore, che lungo le miserabili strade del ghetto è considerato come un piccolo possidente terriero. Non c’è nessuna boria in lui, ma solo una quieta vulnerabilità; aver capito come raggiungere la cima della catena alimentare in un ecosistema in cui l'ascensore sociale è perennemente fuori servizio non significa essere privi di sensi di colpa, i quali sono portati alla luce dolorosamente dall’incontro con Chiron e sua madre, le cui disgrazie sono in gran parte legate alla droga. Paula non è una madre anaffettiva: la sua rabbia e le sue crisi d’astinenza però sono travolgenti quanto il suo amore per il figlio, incastrato suo malgrado in una situazione estremamente difficile e spesso violenta, dalla quale non sembra esserci via di fuga. Naomie Harris sullo schermo è una forza travolgente, una tempesta minacciosa anche quando l’obbiettivo della macchina da presa si allontana da lei. I tormenti del suo personaggio salgono alla fine in superficie in una scena di struggente bellezza e semplicità. Agli antipodi rispetto a Paula sta Teresa (Janelle Monáe), la moglie di Juan, che con la propria calma determinazione riesce a conquistarsi un posto nel cuore di Chiron e a fornirgli un temporaneo riparo dalle stravaganze materne. 

Lungo tutto il film la messa a fuoco è millimetrica, si concentra sui volti dei personaggi lasciando sfumare tutto quello che sta attorno a loro. Il sobborgo desolato di Miami è importantissimo all’interno della storia, ma ciò che interessa davvero a Jenkins è come esso influisce e plasma chi lo abita, quali segni lascia su di loro. Non ha paura di guardare dentro gli occhi annebbiati di Paula. Quando l’inquadratura si allontana, per esempio quando Chiron attraversa l’ingresso della scuola, a dominare sono le sottili ed un po’ alienanti distorsioni dei grandangoli.
Il mondo di Moonlight è disperato ed oppressivo, eppure non riesce a soffocare davvero l’amore tra due ragazzini. Una spiaggia deserta lambita dalle onde dell’oceano è l’unico luogo in cui essere davvero liberi, e Jenkins riempie le scene lì ambientate di un palpabile afflato poetico, in cui il tempo si ferma e lo spazio si restringe a pochi metri quadri di sabbia, un paio di onde e qualche palma all’orizzonte. Il rapporto tra Chiron e Kevin attraversa tutti e tre i segmenti: come tutti gli amori che contano davvero, anche la loro relazione è un lento processo di scoperta di sé attraverso l’amato, che ci osserva come nessun altro è in grado di fare. Il romanticismo di Moonlight è estremo, lirico, forse addirittura fuori moda, tuttavia la sua forza non è mai esibita ma quasi del tutto occulta, e sulla scena arriva la potente tensione del conflitto tra esteriorità ed interiorità. Moonlight è tanto taciturno quanto il suo protagonista, e allo stesso tempo intimo e pieno di sentimento.

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