venerdì 30 ottobre 2015

Crimson Peak (Del Toro, 2015)


Crimson Peak (Del Toro, 2015) è uno di quei film di cui, più che la trama, si apprezza – per così dire – l'artigianato. La vicenda di cui è protagonista Edith (Mia Wasikowska) amalgama elementi e tòpoi tipici dei grandi romanzi di epoca vittoriana, come Jane Eyre e Dracula, certamente avendo cura per il dettaglio e per le sfumature ma apparentemente senza evolvere in un racconto più grande od affascinante come succedeva ne Il labirinto del fauno (El laberinto del fauno, Del Toro, 2006). Guillermo Del Toro si relaziona alle sue fonti nelle vesti di devoto epigono, costruendo attorno alla sceneggiatura una messa in scena sontuosa. Si è molto parlato dell'uso dei colori in Crimson Peak, ispirato ai film in Technicolor di Mario Bava, ed in effetti, a meno che non si sia daltonici, in un periodo in cui il cinema mainstream ci ha assuefatto alla visione di mondi perennemente immersi in spenti toni desaturati, i rossi sanguigni, i neri vellutati, i purissimi bianchi, i blu profondi, le sfumature malaticce di verde e le calde e confortevoli gradazioni di seppia sono un vero piacere per gli occhi (oltre ad essere usati intelligentemente dal punto di vista narrativo). Le prove attoriali ci paiono tutte molto buone e il profilo affilato di Tom Hiddleston (chiamato a rimpiazzare Benedict Cumberbatch) si adatta perfettamente al ruolo dell'affascinante e cupo straniero. L'intricata scenografia di Allerdale Hall (completamente costruita senza l'ausilio della computer grafica) ha qualcosa di vivo e di pulsante che inquieta ed allo stesso tempo attrae; aspettarsi del realismo da un tale edificio, i cui recessi oscuri rimandano a quelli ben più spaventosi dell'animo umano, è del tutto fuori luogo. Il suo lento sprofondare nell'argilla rossa (ovviamente un segnale sinistro), che filtra in mezzo alle mattonelle e invade le tubature, è forse una delle idee più accattivanti del film. I fantasmi, in fondo, sono poco altro che ombre grottesche, emanazioni di persone vittime di eventi luttuosi che sembrano riemergere dal terreno, dai muri stessi. L'unica nota davvero negativa è il montaggio dei trailer, che riesce nel non facile compito di spoilerare quasi tutte le scene più importanti del film; da parte nostra, speriamo che l'approccio scelto da J. J. Abrams per i trailer di Star Wars: Il risveglio della Forza (Star Wars: The Force Awakens, J. J. Abrams, 2015), ovvero un montaggio atmosferico e non narrativo, sia seguito da sempre più registi, produttori e specialisti di marketing. 


venerdì 16 ottobre 2015

Suburra (Stefano Sollima, 2015)


Suburra (Stefano Sollima, 2015) è un lungo, rumoroso addensarsi di nuvole nere che promettono una tempesta di dimensioni inenarrabili; alla fine, però, quello che cade dal cielo è solo un acquazzone estivo. Le vicende rappresentate, pur essendo del tutto fittizie, sono pesantemente ispirate a recenti fatti di cronaca italiana ed in questo, in linea teorica, non ci sarebbe nulla di male; ma la mano che descrive e gestisce gli avvenimenti è pesante e poco accurata, ed alla rielaborazione narrativa preferisce un collage di articoli di giornale che manca di approfondimento. Si potrebbe argomentare dicendo che la realtà è in sé irrappresentabile, in quanto composta da innumerevoli sfumature che il solo occhio della macchina da presa, per quanto accurato, non può supporre di cogliere; ed è chiaro quindi che, se ad un racconto che, pur prendendo le mosse dalla realtà, la utilizza per tracciare un suo disegno personale se ne preferisce uno che da questa è in tutto e per tutto dipendente senza cercare l'affrancamento, il mondo reale finisce per risultare molto più interessante ed imprevedibile della sua pallida imitazione, condannata a ripetere pedissequamente quanto già detto, già visto, già vissuto. I personaggi sono sagome da poligono di tiro, immagini bidimensionali, così ricalcate su persone realmente esistenti da sembrare dei sostituti – gli originali saranno stati impegnati in una puntata di Porta a porta – con delle capacità recitative più che buone; ci sarebbero le potenzialità per sviluppare delle personalità interessanti – il mondo criminale ha sempre il suo fascino, dopotutto – ma non si rischia un'immersione in profondità, si naviga a pelo d'acqua e senza usare il sonar. Ci sono molti modi con cui è possibile mettere in scena un politico corrotto e con passioni pericolose, un capofamiglia mafioso, un reuccio di città con le mani in pasta ovunque, un uomo meschino senza arte né parte: Sollima, parandosi dietro lo scudo dell'attualità, sceglie di farlo nel modo più scarno e banale possibile, appiattendo i personaggi fino a farli diventare maschere che non ci spaventano né ci interessano più. La realtà, l'abbiamo già detto, ci ha abituato a mostri peggiori e più affascinanti. L'idea di fondo sembrerebbe essere quella di rappresentare un mondo senza più speranze, a pochi giorni dalla fine: il risultato, invece di essere ipnotico e piacevolmente velenoso, finisce per assomigliare ad un unico tasto ribattuto impunemente per due ore e dieci minuti. Tutto è malvagio, nulla può essere salvato, nulla può essere fatto se non aspettare che arrivi il giorno del giudizio, lasciandosi trascinare dalla corrente di una trama che non nasconde e non rivela ma che semplicemente si snoda senza sorprese, navigazione lungo la costa. L'eliminazione delle forze dell'ordine, che nel romanzo da cui Suburra è tratto apparivano in forze – almeno, così si legge in giro – è, con tutta la buona volontà dell'universo, ingiustificabile: si elimina così il polo opposto dello schieramento, si annulla il conflitto nel tentativo di rafforzare la rappresentazione di una dannazione eterna che suona, proprio per questo, ancora più artificiale. Sommerge il tutto una gran quantità di grigia pioggia torrenziale, che ci verrebbe la tentazione di definire un cliché, e una colonna sonora che, se in alcuni punti è accettabile, in altri finisce per soffocare irragionevolmente il film sotto una patina falsamente introspettiva. Se questo è un esempio del migliore cinema di intrattenimento che l'industria italiana riesce a proporre, la strada per arrivare a dei prodotti validi ed internazionalmente competitivi ci pare ancora piuttosto lunga.

venerdì 9 ottobre 2015

The Martian – Sopravvissuto (Ridley Scott, 2015)


The Martian – Sopravvissuto (Ridley Scott, 2015) ricorda un vestito di sartoria: le cuciture sono curate, i tessuti pregiati, e gli si perdona volentieri qualche banalità nella sceneggiatura, controbilanciata sul campo visivo da scelte tutt'altro che antiquate, come il passaggio dalla diretta tv alla realtà della sala stampa in un unico carrello, o le sovraimpressioni che informano gli spettatori dei nomi e del ruolo di alcuni personaggi velocemente e conservando minutaggio e battute per altri e più interessanti passaggi. L'occhio esperto di Ridley Scott emerge nel contrasto tra i primi e primissimi piani dei volti degli attori – Matt Damon, per ovvie ragioni, su tutti – e i campi lunghissimi dedicati alla superficie di Marte, un deserto di sabbia e rocce aranciate, memore forse di quella Monument Valley che nei decenni passati ha costituito lo sfondo di innumerevoli altre avventure di cavalieri solitari. Qualcuno, del resto, aveva già supposto da tempo una possibile affinità tra il cinema fantascientifico moderno ed il western:
[…] la profondità spaziale continua a non essere troppo distante dalle lande desolate del cinema western, un luogo talmente straniante da confinare con il mistico, l'ultimo rimasto in cui esista ancora la concreta sensazione che tutto possa accadere, in cui si avverte la presenza dell'ignoto e quindi in grado di mettere alla prova l'essenza stessa dell'essere umani.
http://www.mymovies.it/film/2013/gravity/

C'è qualcosa di rassicurante nei disperati tentativi di sopravvivenza di Gravity (Alfonso Cuarón, 2013), Interstellar (Christopher Nolan, 2014) e The Martian – Sopravvissuto; una purificazione catartica, una celebrazione dell'umana capacità di adattamento e resistenza che pare richiamare, in controluce, i grandi problemi – ecologici e sociali – della Terra del ventunesimo secolo. Contro ogni possibilità e previsione, anche di fronte ad ostacoli apparentemente insormontabili, sapremo cavarcela come sempre abbiamo fatto perché, nonostante tutto, siamo pieni di risorse, di intelligenza, di passione, di sentimento. Non c'è da stupirsi, quindi, se nel film di Ridley Scott abbonda l'ironia, lungi dall'essere presente soltanto in quanto ultima moda cinematografica sulla scia dei cinecomic Marvel: non c'è sentimento più umano del riso, scudo all'assurdità e alla violenza del mondo (dell'universo, in questo caso) e ultimo baluardo della ragione.